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Eco di fondo è una compagnia teatrale nata da Giacomo Ferraù e Giulia Viana, diplomati all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2007. Si occupano di teatro di prosa e di teatro ragazzi. Selezionati per due anni consecutivi a NEXT, laboratorio per delle idee (O.Z.,, 2014 e LA SIRENETTA, 2015), hanno vinto diversi premi, tra cui: Premio Riccardo Pradella (2014), Selezione Inbox (ORFEO ED EURIDICE, Teatro Presente-Eco di fondo, 2014), finalista Premo Scenario Infanzia (NATO IERI, 2012), Premio Fantasio Piccoli (SOGNI, 2010), Premio ANPI Cultura (LE ROTAIE DELLA MEMORIA, 2008)

lunedì 16 aprile 2012

I CANDIDI da saltinaria.it

http://www.saltinaria.it/recensioni/spettacoli-teatrali/14902-i-candidi-spazio-tertulliano-milano-recensione-spettacolo.html

Chissà se è pensato l’omaggio a Pina Bausch con il quale comincia I Candidi.

Al Café Müller della madre del Tanztheater, luogo in cui, con estrema serialità, i gesti e le emozioni crude dominano sulle parole. Omaggio che poi si diffonde a macchia d’olio per tutta la pièce così interessante del regista Emanuele Crotti, a volte più marcato, altre meno.

È buio, gli spettatori prendono posto e i sette candidi sono già lì che si aggrovigliano tra loro. Una danza corporea che esprime ricerca e dolore, che ha un vago richiamo carnale, di una sensualità che però poi la disperazione ricopre immediatamente.

Le dinamiche sfuggenti degli adulti che circondavano Pina diventano ora quelle di sette ragazzi che giocano agli adulti. Dinamiche che, in una condizione estrema, prendono il sopravvento con altrettanto estreme conseguenze. I ragazzi diventano uomini, gli uomini diventano – come ricordava il primordiale titolo della messinscena – bestie.

Quanto di più simile invece, è il colore bianco. Ne I Candidi, così come in Café Müller, gli attori sono vestiti di questo non-colore che rappresenta tutto e niente. Maglie che poi saranno fruste oppure stracci di sette eroi sopravvissuti della tinta più candida – appunto – possibile, che rappresenta, più di ogni altra cosa, la ricerca di un’identità: chi siamo? Quanti siamo? Cosa è più importante? ­­­­­­­

Quello che rende I Candidi un’opera teatrale originale e ‘a sé’ è l’aver reso così semplice e visivo (ma non per questo meno sofisticato o importante) uno spunto come Il signore delle mosche (romanzo prima, film poi, singolo, infine, del 1995 degli Iron Maiden), all’origine decisamente per palati raffinati. La bravura sta nella capacità degli attori, tutti e sette molto giovani eppure così in grado di calpestare il palco con massima padronanza, di trasmettere quella costante provocazione pessimista e corrotta dell’essere umano alla continua ricerca di salvezze.

Questa comunità, sperduta in un’isola deserta senza tempo, trasforma un paradiso in inferno, tra ricatti, paure illogiche, atteggiamenti selvaggi, atti di cannibalismo. Il messaggio punzecchia continuamente lo spettatore attraverso un gioco di respiri, movimenti e poche parole che, ad un attimo dalla malvagità, come i movimenti della Bausch, ripetono i concetti in maniera ossessiva, come in una serigrafia.

Il colore bianco diventerà la loro carne cruda e poi ancora una veste fino a trasformarsi in qualcosa di sporco, di nero, nero ovunque, come l’attacco di un mostro (interno o esterno) che governa. Tutto in una movenza continua, perfettamente confusionaria, un ballo senza fine tra il primitivo e l’onirico, tra un girotondo innocente e un massacro a corpo nudo tanto grezzo quanto d’effetto.

L’accattivante trovata di esprimere attraverso il corpo trova poi la sua apoteosi al passaggio da vittima a male estremo, manifestato con il volto di un maiale. Simbolo di cattiveria e sporcizia (dell’anima) e dell’abbondanza crudele desiderata. Simbolo, inoltre, di una metamorfosi ultima, della brutalità dell’uomo che sfocia in un istinto animalesco. L’attore soffoca con addosso la maschera e si sposta con irregolare abilità da una parte all’altra del palco, lo fa tra il buio, spostando le luci, infastidendo in silenzio lo spettatore che l’osserva. Zoppica, si gira piano e poi di scatto, alza le spalle come se fossero appuntite, porta indietro la schiena come se ci fosse il peso di una gobba, o di tutti i mali, sembra davvero che la terribile barbarie sia stata appena vissuta nella poltroncina affianco dello spettatore ammutolito che ne vorrebbe vedere ancora tanto è stato l’impatto.

Poi d’improvviso la scena finale. I sette naufraghi sono rimasti cinque, hanno creato la loro democrazia, la disumanità l’ha trasformata in dittatura violenta (d’altronde proprio Golding, autore del libro, scriverà che l’uomo produce il male così come le api producono il miele).

Con un pizzico di provocazione ci si ritrova davanti ora cinque superstiti pronti a raccontare al microfono la loro esperienza da prima pagina. Rivestiti, ripuliti, come se nulla fosse.Siamo sempre stati cinque, dicono, non c’è stato nessun cannibalismo, non c’è stato nessun passaggio dittatoriale che ha portato all’odio profondo, non c’è stato nessun episodio estremo. Coprendo dunque il marcio con candida apparenza. E a pensarci bene, questo gesto finale, non è poi così distante dalla nostra realtà, nel nostro Paese. Coprire il marcio con candida apparenza. Che uno se ne va da teatro e ha qualcosa su cui riflettere.


Articolo di: Andrea Dispenza

Grazie a: Ufficio stampa Marta Ienco

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